Lo sbarco in Piazza Affari di Elisabetta Franchi con il gruppo Betty Blue S.p.A non è passato per nulla inosservato, sfortunatamente per la stilista emiliana le attenzioni non sono state affatto positive.
Successivamente all’annuncio dell’entrata in borsa è seguita l’analisi del cda della compagnia che sorprendentemente conta una sola donna fra i suoi otto consiglieri, Elisabetta Franchi stessa. La notizia ha suscitato perplessità ed indignazione. Il marchio emiliano infatti nei suoi otto anni di vita ha sempre adottato uno story-telling legato a valori come l’empowerment femminile e l’esaltazione della femminilità. Senza contare che l’immagine che la stilista ha sempre cercato di trasmettere è quella di una donna, madre e moglie tenace e resiliente, senza mai lasciarsi sfuggire l’occasione di esaltare il successo, raggiunto nonostante i numerosi ostacoli affrontati nella vita. A questo punto non rimane che domandarsi se tutta questa retorica sulla positività e sulle capacità femminili più che fonte di ispirazione non fosse altro che autocelebrazione fine a sé stessa.
Sfortunatamente l’assenza di quote rosa nei cda delle aziende e maison non è una realtà così anomala. Nonostante l’introduzione della legge 120/2011 Golfo-Mosca la percentuale di donne impiegate in ruoli amministrativi in Italia ha raggiunto solo il 36,4% mentre quella di amministratori delegati nel mondo del lusso è del 5%. Tuttavia sembra che si stia verificando una, seppur lenta, inversione di tendenza, soprattutto nei colossi del settore. Come ad esempio l gruppo Kering che nel 2019 si è piazzato al 10 posto su 100 nell’ Refinitiv Global Diversity and Inclusion Index ed il cui cda è composta da 7 donne su 11 componenti totali. Il gigante LVMH a sua volta conta 6 consiglieri donne su 13 totali. Il gruppo Aeffe invece non avanza grandi pretese a riguardo. Nello statuto della compagnia viene dichiarato che nel consiglio di amministrazione gli esponenti del genere meno rappresentato sono almeno due quinti del totale. E ad oggi le componenti effettive sono 3 su 8.
Il dato più disturbante è che sembrano essere proprio le aziende al cui capo vi è una donna quelle che dimostrano più difficoltà nell’ adeguarsi ai tempi. Fra queste Prada e Versace i cui cda non sono per niente bilanciati; contando che come nel caso di Prada sono presenti solo 2 donne su 9 componenti totali e una di queste è la signora Miuccia.
Un’eccezione è Christian Dior che negli ultimi anni grazie alla direzione artistica di Maria Grazia Chiuri ha assunto un’identità indubitabilmente femminista in tutte le sue sfaccettature. Identità che non viene smentita nemmeno dalla comosizione del consiglio di amministrazione, che si presenta quasi perfettamente bilanciato.
Non rimane quindi da chiederci come mai questo cambiamento risulti così ostico. La mancanza di donne qualificate non può più essere utilizzata come scusante come dimostrano i membri del comitato esecutivo dei due colossi francesi. Parte del problema è certamente legata alla tendenza di considerare le maison come “affari di famiglia”. I brand quasi esclusivamente a conduzione familiare o che mantengono il numero di “estranei” all’interno del proprio consiglio al minimo sono la maggior parte, almeno sul fronte italiano. Come nel caso del re della moda Giorgio Armani, dove le uniche due donne presenti sono la sorella Rosanna e la nipote Silvana. Questa tradizione purtroppo risulta controproducente non solo dal punto di vista etico ma anche dal punto di vista amministrativo, limitando i cda a soli parenti e amici fidati vi è il rischio estremamente concreto di affossarsi nella tradizione limitando gli input innovativi al minimo.
Qualunque siano i motivi la delusione riguardo a questi dati è inevitabile. Non solo per la presa di coscienza che anche un settore che da sempre sembra essere dedicato, anche in modo stereotipato, alle donne non è comunque inclusivo nei loro confronti. Con la conseguente realizzazione che la maggior parte dei modelli di femminilità che negli anni si sono imposti e susseguiti sono stati ideati dagli uomini. Non resta che da chiedersi se la propaganda di empowerment degli ultimi anni non sia stata solo questo per l’appunto, almeno nella maggior parte dei casi.
Fra designer iconiche, collezioni che veicolano sempre più spesso messaggi femministi rivolgendosi a donne moderne, determinate ed in carriera sembra arrivato il momento di non limitarne l’importanza solo alle passerelle.